Ai microfoni di Gazzetta Tv, a 360° gradi si racconta Marcello Lippi, l’ultimo allenatore azzurro a portare l’Italia, nel 2006, sul tetto del Mondo. Tante esperienze vincenti, sia in Italia che in Asia: questo ed altro è l’allenatore di Viareggio.
“La mia prima esperienza con il Cesena fu molto positiva. Lugaresi mi offrì il rinnovo prima della salvezza, con una stretta di mano. La sera stessa mi chiamò l’Atalanta, che mi offrì di più: ci pensai, ma rifiutai perchè non volevo passare per uno che non mantiene la parola. Fui esonerato sei mesi dopo. Dopo quell’anno di Serie A, mi resi conto che quando si comincia a salire una scala e si scivola, si cade a terra, e non di un solo scalino. Ero un allenatore giovane, con voglia. Ho sempre coinvolto il mio staff“.
Proprio sul coinvolgimento, Marcello Lippi si sofferma, svelando un aneddoto azzurro: gli ingredienti del discorso a Coverciano prima della partenza per il Mondiale 2006. “Facemmo due anni di qualificazione, battendo Moldavia e Bielorussia. L’Italia non va al Mondiale per partecipare ma per vincere. Chiesi amichevoli con Brasile, ma non fu possibile, e con l’Olanda: giocammo con loro ad Amsterdam vincendo 3-1. A Firenze giocammo con la Germania, ed i giocatori erano carichi. La squadra si sentiva forte”.
Sul tetto del mondo mentre il movimento italiano era al tramonto, possibile? Lippi, in tal senso, precisa: “Il calcio migliore del mondo non è mai stato il nostro, sono sempre stato dell’idea che il calcio di club non va paragonato con la Nazionale.Il calcio italiano è rappresentato dalla Nazionale, i club non sono espressione del calcio del Paese. La Nazionale aveva grande qualità: Totti, Buffon, Del Piero, Pirlo. Ora ci sono, ma con qualche anno in più. In quel biennio sceglievo sul 65% di calciatori italiani in Serie A, mentre Conte deve scegliere sul 35%: è diverso”.
Marcello Lippi ricorda anche il suo mentore, con un paragone interessante: “Fulvio Bernardini, il dottore, era allenatore della Sampdoria. Mi ha sempre rimporverato, bonariamente, sul fatto che ero fissato con le ragazze. Mi fece esordire: ho constatato, con lui, una qualità nell’imporre la sua personalità senza annullare gli altri, qualità che non ho mai ritrovato. A chi somiglia? Forse ad Alex Ferguson, ma è difficile far paragoni: nei rapporti Ferguson era «fumino». Bernardini era più «accomodante», ed anche a me è capitato, qualche volta“.
Non solo Nazionale, ma anche Juventus e «juventinità»: “Nella storia del calcio, gli Agnelli sono presenti da più di cento anni. Gli Agnelli non hanno mai lavorato insieme: nel 1994 mi chiamò il dottor Umberto, era da poco finita l’era dell’Avvocato, di Boniperti e Trapattoni. L’Avvocato mi chiamò per il benvenuto, per sei mesi non lo sentii più. Dopo alcune trattative, che proseguivano con lentezza, arrivò la Juventus, ed accettai. Ovunque sono andato, le prime partite sono state pendenti o deludenti. Le esperienze che mi porto dentro sono quelle vissute in Juventus-Ajax, a Roma: tutti mi guardavano, per dirmi che c’erano. Scelsi i rigoristi e vincemmo: Jugovic fece un mezzo sorriso perchè sapeva che dipendeva tutto da lui, e sapeva di farcela. La seconda esperienza è quella di Manchester: partita poco brillante, ed i giocatori non erano convinti, ma distratti, infatti perdemmo. A Berlino, invece, fu come a Roma: eravamo contentissimi, e soprattutto tanto convinti. Mi sentii sicuro, ed ero convinto di vincere, perchè non poteva andare sempre bene alla Francia, dopo Francia ’98 e gli Europei con il golden goal di Trezeguet. In molti hanno detto che è stata decisiva l’espulsione di Zidane: io penso che non abbia influito per niente, eravamo a cinque minuti dalla fine, ed eravamo stanchi. I calci di rigore li hanno battuti in tanti, ha sbagliato solo Trezeguet, e non Sagnol: con Zidane, Sagnol non avrebbe tirato, ma Trezeguet sì”.
Tante anche le impressioni sui campioni allenati, come Christian Vieri: “Il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via, un grande professionista, anche se in tanti non lo pensano. Con Vieri, nel 1997 mi arrabbiai e lo cambiai dopo 20 minuti. Discutemmo, e per fortuna ci fermarono. La sera, a cena, e sento qualcuno che mi chiama: parlammo due ore, a testimonianza del nostro rapporto. Parlavo spesso con lui, lo ritrovai all’Inter, e lo misi in coppia con Ronaldo. Si fece male, poi al Milan non giocava ed andò al Monaco per cercare minutaggio verso il Mondiale. Dopo venti giorni dal nostro ultimo incontro, si infortunò e non lo convocai. Lui è il classico campione che ha vinto poco: le prestazione personali, nella memoria, sfumano. Le coppe, invece, rimangono. Questo è il suo grandissimo rammarico”.
Matteo Maria Munno – calciomercatonews.com
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