La convocazione in Nazionale rappresenta il punto più alto toccato in carriera da ogni giocatore e, di conseguenza, scendere in campo con addosso la maglia che rappresenta il proprio paese dovrebbe essere un motivo in più per non deludere un popolo intero. Utilizziamo il condizionale: per quale motivo? Per il semplice fatto che oggi l’affermazione iniziale non sempre rispecchia la realtà. Sempre più spesso si vedono Nazionali composte da rose in cui la maggior parte degli elementi presenti non hanno niente (o molto poco) da spartire con il resto della squadra sia dal punto di vista culturale che – soprattutto – da quello calcistico. In casi simili non si tratta più di parlare di razzismo o di integrazione bensì di un qualcosa che collide con lo spirito stesso delle varie competizioni. Il Mondiale, per esempio, si svolge ogni quattro anni mettendo di fronte le migliori Nazionali del pianeta. Ciascun team ha una tradizione, dei valori e più specificatamente una scuola calcistica ben delineata, con radici lontane nel tempo. Il calcio-spettacolo del Brasile, il catenaccio italiano, il Tiki-Taka spagnolo, il Calcio Totale olandese, il classico 4-4-2 inglese e così via. Ora, vi immaginate un giocatore italiano inserito all’interno degli schemi della Spagna oppure un inglese nel modulo tutto classe e raffinatezza del Brasile? Sicuramente ci sarebbero delle eccezioni alla regola ma in definitiva ogni paese ha una propria scuola calcio, un modo di intendere il pallone che non trova riscontri simili in nessun altro posto. Chiamare in Nazionale giocatori che sono vissuti in un altro paese, con concezioni quindi diverse, porta con il passare del tempo al disgregamento dell’identità delle varie squadre.
I criteri utilizzati dalla FIFA per la convocazione in Nazionale degli atleti non aiuta di certo a contrastare il fenomeno sopra descritto. Un giocatore può rappresentare qualsiasi Nazionale, a patto che sia in possesso della cittadinanza di quel paese. Nel 2004, in risposta al sempre maggior numero di naturalizzazioni di giocatori stranieri, la FIFA ha aggiunto un nuovo parametro che prevede che il giocatore debba dimostrare un “chiaro collegamento” con qualsiasi stato voglia rappresentare. In altre parole deve avere un genitore o un nonno nato in quel paese o deve risiederci per almeno due anni divenuti poi cinque nel 2008. Inoltre se un giocatore ha totalizzato delle presenze con la Nazionale maggiore di un paese generalmente non è autorizzato a cambiare nazionale. Prendiamo l’esempio del brasiliano che si fa tutte le trafile delle giovanili carioca. Così facendo assimila una precisa idea di come scendere in campo. Ipotizziamo che lo stesso nostro amico abbia nel frattempo acquisito la cittadinanza italiana e decida prima del ventunesimo anno di età di accettare la convocazione dell’Italia. Ecco che un giocatore diverso – dal punto di vista calcistico! – viene inserito in un contesto al quale non appartiene né per quanto concerne il senso più tattico del gioco né per quello strettamente legato al piano umano. Giocare per un popolo che alla fine non è il tuo rischia di toglierti motivazioni che stanno alla base di tutto il nostro ragionamento. Senza poi considerare l’indebolimento di certe Nazionali a discapito di altre.
La soluzione potrebbe essere la seguente: eliminare la legge FIFA che consente il cambio di nazionalità prima dei 21 anni. Chi inizia il proprio percorso in una nazionale lo può finire solo in quella. Esempi pratici: Balotelli e Thiago Motta. Per il primo non ci sarebbero problemi in quanto l’attaccante del Milan ha giocato soltanto con nazionali italiane, per il secondo il discorso cambia: il centrocampista del Psg conta presenze in nazionali Under 17 e 23 brasiliane. Quindi porte sbarrate per la convocazione in azzurro. L’integrazione in un paese deve essere totale e avvenire in modo completo perché non basta avere un nonno o un lontano parente in quel luogo per essere autonomamente riconosciuti idonei a rappresentarne la Nazionale.
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