Calciomercato Milan, MILANO – L’abbraccio fra Ibra e Ronaldinho. Poi Ibrahimovic scenderà nella sala conferenze e racconterà: «E’ vero, ho vinto scudetti alla Juve, ma con quei tre là come facevo a perderli? All’Inter non ho segnato un solo gol decisivo in Champions. Fossi rimasto, sarebbero arrivati a cinquant’anni senza quella coppa, come sognavano i milanisti… L’Inter mi ha fatto venire il mal di pancia. Il Barcellona? Messi vale un’unghia di Pato. Guardiola al Sassuolo non avrebbe fatto ciò che ha fatto Allegri. David Villa? Io conosco solo Silvano Villa, grande bomber del Milan negli anni 70. Qui finalmente posso vincere il Pallone d’oro». Falso? Ipocrita? Nel 2005 spiegò in un esperanto tutto suo: «Juventus una club di… one of the best of the world and… questo di top top, dopo Juve non c’è». Il meglio al mondo, insomma. Ma quando, un anno dopo, il meglio al mondo finì in B, Ibra sterzò: «Felice dell’interesse dell’Inter. Da piccolo ero tifoso nerazzurro». Mercenario? Agli antipodi delle ultime grandi bandiere: Maldini, Del Piero, Zanetti? Siete proprio sicuri? Javier Zanetti quando fa gol tende la maglia per mostrarla ai tifosi, Ibra se la toglie. Quella pelle tatuata è la sua vera maglia, l’unica cui è fedele. Ibra si sveste perché ha bisogno d’aria, tutta la sua arte, a partire dal dribbling, è ricerca di spazi, ansia di libertà. Il bus a due piani di una festa scudetto gli andava stretto perciò lo scoperchiò a colpi di taekwondo. Non si lascia ingabbiare da nulla. Svedese? Sì, ma moro. Alto quasi due metri? Sì, ma con i piedi buoni. I piedi buoni sono piccoli? Ibra calza il 47. E’ tutto un dribbling. Si butta in un amore come fosse l’ultimo, quello di una vita, bacia la maglia. Ma quando l’amore sfiorisce, mica si mette in pantofole ad aspettare l’andropausa. Scappa in cerca di un’altra passione forte, sempre ben pagata. L’antroponimo Zlatan in bosniaco significa «d’oro»; Ibrahimovic sta per «figlio di Abramo». Nudo, libero e ricoperto d’oro: così gli piace stare. Mezzo bosniaco, mezzo croato, cresciuto in un ghetto svedese tra bambini di tutte le razze. Si è allenato a stare con tutti e con nessuno. Ibra è la bandiera di se stesso. Ma non solo. E’ anche la bandiera dei nostri tempi, il campione del disincanto e dell’utile in una stagione di ideologie morte. Ibra è il cannoniere Adecco, il bomber interinale nel day-after del posto fisso. Nei giorni caldi che sciolgono le alleanze di governo, Ibra con disinvoltura mastelliana è pronto a togliersi la maglia che ha baciato un anno fa per giocare nella squadra di Berlusconi. Nell’estate torrida dei mariti mollati che accoppano le ex, Ibra sta per scaricare il Barça e dire «ti amo» un’altra volta. Vi siete convinti ora? Zlatan Ibrahimovic, il «figlio d’oro di Abramo», è la vera grande bandiera della modernità.
fonte: gazzetta dello sport
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